“Bozza dell’intervento al convegno “Codice rosa: vincere la paura”. Perugia, sala Goldoniana università per Stranieri, 25 giugno 2013, ore 16

MargotProject: una filiera di interventi contro la violenza alle donne“(…) sentivo che ci staccavamo e subito usciva fuori il mio nervosismo latente. Qualsiasi occasione era buona per riprenderla, per offenderla. A rivedermi adesso, dall’esterno, a pensare agli ultimi tempi passati con questa persona, mi rendo conto che lei poteva avere paura di me. …(…)

 

“il conflitto cresce, è una escalation, è come salire una scala, un gradino alla volta e arrivi lassù e, quando arrivi lassù o ti fermi o fai quel salto lì, quel salto comporta che fai del male a un’altra persona, a tuo figlio, a te e a tutti gli affetti che ti girano intorno, dopodichè rimettere assieme tutti i pezzi della vita diventa veramente difficile….(…)”

 

“Ho capito che la violenza mina anche la tua persona, oltre a rovinare il rapporto con gli altri. Non è facile fare questo passaggio, perché una donna è disposta a chiedere aiuto alle strutture, un uomo è molto più cieco in queste cose. Un uomo deve cadere nel mare per imparare a nuotare, un uomo deve arrivare a toccare il fondo e io sono dovuto arrivare a questo per mettermi in discussione. L’uomo, quando ha conquistato un rapporto si siede, la donna è sempre in evoluzione, la donna va avanti e l’uomo resta fermo. E quando si è troppo distanti l’uomo non riesce più a raggiungerla, si sente inferiore, usa la parte dove è superiore, la forza fisica, la violenza. L’uomo è convinto che sia una forza, ma in questo caso diventa una debolezza, perché è la dimostrazione che non riesce a reggere il confronto con la donna.”

 

“Ho capito che la percezione della violenza è diversa da uomo a donna. Un gesto che , magari, per me non era significativo in termini di violenza, per la mia compagna era molto, molto significativo”.

 

“ L’uomo, quando diventa aggressivo nei confronti della propria donna, della propria compagna, ha dentro di sé paura, ha una grande paura. Io avevo paura di rimanere solo, mi rendevo conto che il rapporto con la mia compagna andava male e non sono stato in grado di gestire la situazione diversamente. In quei momenti non hai la capacità di comprendere, sei come disarmato, non sei in grado di gestire la situazione ed è così che nascono le violenze. E’ come se si spegnesse la luce”.

 

Parole di uomini per spiegare la violenza alle donne. Parole, tratte dal libro “Se questi sono gli uomini” di Riccardo Iacona, da cui non possiamo prescindere se vogliamo veramente capire le ragioni che hanno scatenato in questi anni una vera e propria carneficina nei confronti del genere femminile.

Perché la violenza alle donne non è (solo) un problema di sicurezza, non è (solo) un problema di polizia, di repressione, ma soprattutto un problema legato ai cambiamenti delle relazioni di coppia che va gestito e supportato. Se non partiamo da questo, se non ci rendiamo conto di questo non potremo mai mettere in atto una serie di interventi efficaci che diano veramente dei risultati soprattutto prima che questi fatti avvengano.

 

L’Umbria, come sono solita dire, non si è fatta mancare nulla in tema di femminicidi e le nostre strade sono ancora insanguinate dagli ultimi due fatti orribili che sono accaduti nei giorni scorsi.

 

Ma c’è stato un episodio tragico che, secondo me, è la spia, il segnale, l’allarme rosso, di quanto in questa regione bisogna veramente cominciare a fare presto, a mettere in atto una serie coordinata di servizi e di inziative, ma, soprattutto, una rivoluzione culturale in questo senso. Mi riferisco all’omicidio di Alessandro Polizzi per opera, almeno stando a quanto ha stabilito la polizia fino ad ora, del padre di un suo rivale.

Se allarghiamo il campo, se vediamo cosa c’è intorno a questo ragazzo-guerriero ucciso e alla sua fidanzata, riusciamo a distinguere una generazione che i mass media in Umbria non avevano mai intercettato. Un generazione di giovani del tutto simile alle compagnie che si formano fra ragazzi nelle periferie delle metropoli, che gravitano intorno a certe palestre, cultori del corpo e dell’onore, che non esitano a risolvere certe questioni con i fatti piuttosto che con le parole.

L’ex fidanzato di Julia, Valerio, nelle ore in cui lei e il nuovo compagno subivano l’assalto di un killer, era in ospedale, col naso spaccato e pieno di lividi, per un pestaggio subito pochi giorni prima. Un pestaggio a cui avevano partecipato tre ragazzi e, secondo la denuncia, come mandanti, proprio Alessandro e Julia, che, stando a quanto ricostruito dalla polizia, erano presenti mentre gli altri tre ragazzi picchiavano. .

 

Che cosa fa pensare questo episodio, cosa fanno pensare questi comportamenti? A ragazzi, capaci di compiere grandi gesti, come Alessandro che difende e salva Julia, ma a cui mancano le parole, che faticano a declinare, ad esempio, l’amore in dolcezza, nostalgia, libertà, oppure la rabbia in dolore, attesa, confronto, chiarificazione, ma che incanalano, questa rabbia, come un micidiale esplosivo, nel corpo, fino a che questo non esplode in manifestazioni violente. Una generazione nascosta tra le pieghe di una città di provincia, di cui tutti dobbiamo ascoltare l’urlo di dolore e di rabbia.

 

 

Credo, come ho detto, che non dobbiamo prescindere da questi elementi per mettere in atto una serie di interventi significativi che incidano veramente su questi comportamenti.

 

Un altro elemento che voglio aggiungere per completare questo quadro l’ho raccolto pochi giorni fa a un altro convegno che si è tenuto a Perugia sul tema “Uomini violenti: prevenzione e recupero”.

 

Vorrei riportare tre concetti dell’intervento di uno psicoterapeuta Giacomo Grifoni, che lavora con gli uomini maltrattanti, che decidono di entrare in terapia

 

Il primo è che la violenza alle donne è un fenomeno che spiazza, che lascia indifesi, perché è trasversale, ne sono protagonisti uomini e donne di ogni ceto sociale, livello culturale. I

 

l secondo punto è che essere uomini violenti, per quanto possa essere un comportamento che ha le radici in un passato difficile, è comunque una scelta. Si sceglie di essere violenti. E per questo si può scegliere di smettere di esserlo.

 

Il terzo punto è che, ha sostenuto questo psicoterapeuta nel suo intervento,  molti uomini, circa il 20-30 per cento, prima di diventare violenti si sono affacciati ai servizi sociali per altri problemi: ad esempio sono stati utenti del Sert, oppure del servizio alcolisti anonimi o sono stati in psicoterapia. Si sono rivolti ai servizi per altri problemi, ma, in qualche modo, hanno provato a chiedere aiuto. Dobbiamo quindi chiederci quanto i nostri servizi siano attrezzati non solo per dare risposte a determinati problemi, ma anche quanto riescano a “captare” i reali problemi delle persone che si rivolgono ai servizi.

 

Credo che nell’affrontare il problema della violenza alle donne non possiamo prescindere nemmeno da questo. Perché è vero che le donne devono acquisire la consapevolezza del proprio valore, come già è stato detto negli interventi che mi hanno preceduto, devono trovare la forza di denunciare e di rompere un legame malato e violente con il proprio compagno, ma, dall’altra parte, devono esserci delle istituzioni e dei servizi in grado di dare delle risposte efficienti ed efficaci, altrimenti la donna resterà comunque sola e, magari, sarà costretta, come purtroppo spesso accade a passare dal calvario di una vita di umiliazioni a un altro calvario: quello di un percorso giudiziario lungo e difficile, della solitudine in cui ricostruire la propria vita.

 

Che cosa fare, a livello nazionale, per invertire la tendenza di questo drammatico fenomeno, ce lo ha già detto l’Onu, in una relazione presentata il 25 giugno del 2012, che ha messo in evidenza le luci e le ombre di quanto l’Italia stia facendo e non facendo su questa tema.

Molto si può fare anche a livello di comunità locale.

 

Per questo è necessario mettere in atto una serie di iniziative a diversi livelli, che siano efficaci nell’immediatezza di un evento acuto, di una emergenza, ma che anche che lavorino in direzioni di azioni di prevenzione.

 

Dell’importanza che i servizi siano capaci di captare le richieste di aiuto di uomini e donne abbiamo già detto.

 

Un altro punto importante potrebbe essere una sorta di rialfabetizzazione dei giovani  proprio su questo tema, con il loro coinvolgimento diretto. Non basta lasciare alla buona volontà di qualche preside che apre la scuola a interventi contro la violenza di genere: le scuole vanno coinvolte in maniera continuativa, arrivando a creare una nuova generazione di cittadini consapevoli e informati su questi temi che interessano direttamente la loro vita. Su questo progetto bisogna crederci, deve diventare un percorso con i ragazzi che si svolge negli anni, in cui i giovani vengono cooptati e integrati all’interno di una progettualità di ampio respiro.

 

E’ importante avere la consapevolezza che è necessario fornire strumenti moderni e il più completi possibili ai ragazzi e alle ragazze per poter interpretare la complessità della società in cui vivono e in cui diventeranno adulti.

 

Quando una donna è vittima violenza siamo tutti sconfitti, non solo la donna che subisce violenza e a volte purtroppo perde la vita. Siamo sconfitti noi, come genitori che non abbiamo aiutato i nostri figli in una crescita consapevole, è sconfitto l’uomo, che ha perso la possibilità di avere un rapporto di coppia equilibrato, affettivo, pieno.

 

Dopodichè rimettere insieme tutti i pezzi di una vita è veramente difficile, diceva uno degli uomini intervistati da Iacona.

 

E certamente non possiamo prescindere dal fatto che è necessario far fronte in maniera costruttiva e coordinata alle emergenze.

 

E’ necessario costruire, in ogni comunità, una filiera rosa, una filiera virtuosa che metta insieme tutti, istituzioni, forze dell’ordine, medici di base, scuole, parrocchie, associazioni, perché una donna che chiede aiuto trovi protezione.

 

Si può partire dal codice rosa al Pronto soccorso, uno spazio riservato alle donne che arrivano al pronto soccorso, con personale formato che sia in grado di capire cosa c’è veramente dietro la richiesta d’aiuto di una donna, se quel livido all’occhio se l’è fatto cadendo dalle scale oppure se dietro c’è qualcos’altro.

 

E poi ci vogliono forze dell’ordine in grado di accogliere le denunce: le donne che dopo anni di violenze subite trovano il coraggio di andare a denunciare non possono più trovarsi di fronte forze dell’ordine che non sono in grado di distinguere tra una lite in famiglia e la violenza continuata in cui vivono troppo spesso le donne, non possono sentirsi più dire “Signora, cosa ha fatto a suo marito per farsi ridurre così”. Non si può lasciare al caso, non può essere una questione di fortuna andare a denunciare e trovare qualcuno in grado di capire la gravità della situazione: questo è un diritto e deve essere garantito. Sette donne su dieci uccise per mano dell’uomo avevano denunciato, sette donne su dieci si sarebbero potute salvare. Rimandarle a casa senza prendere nel modo adeguato la denuncia e senza mettere in atto meccanismi di protezione significa contribuire a mettere a rischio la vita di quella donna. Questo bisogna che sia chiaro a tutti.

 

Poi ci vuole un posto dove queste donne possano trovare ospitalità. L’Umbria, penultima regione in Italia, si sta adeguando in questi giorni a creare una serie di strutture, una rete di case di protezione e di centri antiviolenza.

Io spero che questo progetto vada in porto e sia efficiente, spero che ci sia il coraggio di farlo funzionare al meglio, di riuscire a creare di posti in cui le donne possano essere accolte e protette, di colmare questo ritardo gravissimo, in una regione segnata così tragicamente e profondamente da lutti per violenze in famiglia. Bisogna bruciare i tempi.

 

Non è più il tempo di fare statistiche su quante donne hanno fatto accesso ai centri, su quante richieste d’aiuto ci sono state. E’ il tempo di fare statistiche su quante donne sono state salvate, su quante donne sono riuscite a ricominciare a vivere con pienezza la propria vita.

 

Nemmeno la magistratura può essere lasciata fuori da questa filiera virtuosa: Nei primi nove mesi del 2012 a Terni sono andati a sentenza 9 processi che riguardavano violenze alle donne. Bene, di questi processi, cominciati molto tempo prima, solo due si sono conclusi con la condanna dell’imputato per il reato per il quale era stato denunciato. Solo un marito violento è finito in  carcere. Negli altri casi le donne avevano ritrattato, avevano ammorbidito le loro accuse, erano, a volte, tornate a vivere con il proprio carnefice, perchè non avevano possibilità di sostenersi economicamente – un’ altra forma di violenta diffusissima – perchè avevano paura di perdere i figli. Una delle donne che aveva denunciato era scomparsa. I tempi della giustizia non sono compatibili con i tempi della vita e la voglia di ricominciare di queste donne.

 

Una donna che decide di interrompere il calvario con un uomo violento, lo ripeto, non ne può cominciare un altro, con un percorso giudiziario insostenibile.

 

E ricordiamoci degli uomini, del loro bisogno di riconoscere la violenza, di dare un nome alla violenza per poterla capire e per poter scegliere di non essere più uomini violenti.

 

Queste cose non sono così lontane dalla portata delle iniziative che si possono mettere in campo anche a livello locale, attraverso una collaborazione fra istituzioni, forze dell’ordine, sistema sanitario associazioni e vanno a costruire solo la base, una piccola barriera contro la violenza, in questo paese dove, comunque, sono ancora le vittime a dover scappare a dover stravolgere la propria vita mentre i carnefici troppo spesso sono liberi.