Le storie di Margot sono state le storie degli uomini e delle donne che si stanno avvicinando all’associazione. Le storie di Margot sono anche le nostre storie, di come affrontiamo e cerchiamo di dare risposte per frenare la violenza di genere
Le storie di Margot sono anche, anzi, soprattutto, storie d’amicizia. Senza il sostegno, il confronto, l’affetto delle donne e degli uomini che stanno dalla nostra parte non potremmo andare da nessuna altra parte.
Grazie al magnifico Rettore dell’università per Stranieri di Perugia Giovanni Paciullo, al procuratore Fausto Cardella, al questore Carmelo Gugliotta, al primo dirigente Maria Letizia Tomaselli, soci onorari di Margot
grazie a Monica Capuzzo e Antonio Lusi, alle amiche de “Il coraggio della paura”
grazie a chi ha accettato il nostro invito ed è venuto ad ascoltare le nostre storie
grazie a chi non è potuto venire ma ci sostiene e condivide con noi un pezzo di strada. 

 


 

La testimonianza

L’unico momento in cui mi sembra di sentire il respiro del sollievo è quando sfumano i sogni. E’ quel crepuscolo dove ancora non ti rendi conto chi sei, del luogo in cui sei, del tempo in cui sei. E’ lì, in quel confine di polvere, che tu sei viva. E sorridi, e mi sembra di poterti toccare. 

Lo ricerco quel momento, ogni notte. Perchè il resto del giorno è solo un rosario di dolore. 

margotproject telefonoAnna, non ci sei più. Non c’è più il tuo viso. Non c’è più il tuo cuore, polverizzati dai colpi della pistola di quello che diceva di amarti. E io ti cerco inutilmente. Ti vedo negli occhi di tua sorella, nelle foto, negli oggetti, nei paesaggi dei viaggi che hai fatto e che ora rifaccio. Ma non ci sei più. E mi tormento. Ogni giorno rivedo al contrario il film della tua vita, fotogramma dopo fotogramma – come ricordo tutto, adesso! anche quello che mi sembrava banale, come ricordo tutto, adesso, anche quello che mi sembra conficcato sotto la pelle –  e mi chiedo dove ho sbagliato, cosa avrei potuto dirti, perchè, perchè non ti ho preso e non ti ho portato via. Con me.   

Mi sento in colpa Anna. Mi sento in colpa anche se quel grilletto non l’ho tirato io. Anche se non sono stata io a tirarti per i capelli, la prima volta, quando hai fatto tardi alla cena con i colleghi e lui ti aspettava fuori. Rabbioso e furioso. 

Mi sento in colpa perchè tu l’hai giustificato. Mi hai detto: “Mamma, mi vuole bene. Non mi ha mai fatto niente, forse era solo stanco e preoccupato per me”. 

Ti avrei dovuto mettere in guardia, bambina. Ti avrei dovuto dire subito “Bambina mia, non farti mai mancare di rispetto. Bambina mia la violenza non c’entra niente con l’amore. Lascialo”. Ti avrei dovuto dire di lasciare le chiavi infilate nella serratura quando ti chiudevi in casa. Ti avrei dovuto prendere e portare via. Da me. Invece, ora, bambina mia te lo posso dire solo davanti al vento. 

Ma tu mi rassicuravi, Anna. Mi dicevi che andava tutto bene, che eri in grado di cavartela da sola. Ed in effetti, Anna, tu eri più forte di me. Perchè l’hai sopportato, è vero. Hai sopportato che lui si trovasse sempre nei posti dove eri tu. E poi hai scoperto che aveva collegato il tuo ipod e il tuo cellulare al suo computer così che, quando ricevevi o inviavi un messaggio, lo leggeva anche lui. 

Hai sopportato che alzasse la voce e le mani su di te. Che ti controllasse e ti tenesse lontano dalle tue amiche. Lontano da me. Poi, a un certo punto, però, hai detto basta. 

L’hai lasciato. Ed è stato l’inferno. 

Entrava in casa tua quando tu non c’eri. E’ arrivato a smontarti la lavatrice, pezzo per pezzo, e a rimontare i pezzi in modo che non funzionasse. Tu hai avuto paura, hai chiesto aiuto al padrone di casa, gli hai chiesto che ti cambiasse le chiavi della porta blindata. “Costa troppo”, ti ha risposto. Non ti credeva. 

Era questo il punto. Non ti credevano. Non ci hanno mai creduto, Anna. 

Non hanno creduto a me, quando chiedevo aiuto alle forze dell’ordine perchè tuo padre mi picchiava. “C’è sangue signora?” mi ha chiesto una volta un agente quando ho telefonato. “No, non c’è sangue” risposi incredula. “Allora non possiamo intervenire. Faccia la brava con suo marito”. Io non ero cattiva, però. Lo giuro. Cercavo di piacergli. Alzavo muri fra me e il mondo per non vedere che c’era altro, che si poteva vivere in maniera diversa. Sopportavo perchè credevo di farlo per te e tua sorella.   

“Non hanno creduto a te, mamma. Non crederanno a me”, dicevi. 

Poi il sangue c’è stato. Una, due, dieci volte. Quante… non ricordo nemmeno. Ricordo solo che avevo tua sorella piccolina in braccio coperta di sangue. Del mio sangue, per gli schiaffi che stavo prendendo. E lì, finalmente, ho capito. Quell’immagine di tua sorella insanguinata mi ha fatto dire basta. Quella volta era il mio sangue, la volta successiva sarebbe potuto essere il suo. 

Ho detto basta. Ma era tardi. Non per me. Era tardi per te. 

Tu, coraggiosissima bambina mia, che a tre anni ti mettevi fra me e tuo padre per difendermi. 

Lo so, bambina. Non si può raccontare la tua storia se non si racconta la mia. E’ per questo che mi sento in colpa. Perchè io lo so. L’ho sempre saputo, ma non volevo ascoltarmi. 

Però, bambina, cosa avrei potuto fare? 

A 19 anni mi sono ritrovata sposata e sono andata a vivere in una città che non era la mia, lontana dalla mia famiglia. A 20 sei arrivata tu. E poi le torture. 

Le sue. 

Se tornano dal lavoro con 10 minuti di ritardo era un problema. “Mi vuole troppo bene”, mi dicevo.  Poi erano botte. Mi picchiava nei posti in cui non si vedeva. 

“Mi vuole troppo bene”, mi ripetevo. Non ci credevo più. Ma non sapevo cosa fare. Ero isolata, non avevo amicizie. Mi sembrava un delitto denunciare il padre di mia figlia. E’ andata avanti così per 11 anni. C’erano giorni terribili e altri che chiamavo “giorni buoni”. Perchè in quei giorni mi insultava solamente e io mi rinfrancavo: “Oggi è un giorno buono. Non mi ha picchiata. Forse smette”. 

Non ha smesso fino a quando non mi ha mandato all’ospedale. Il sangue c’era. Tanto. Finalmente mi hanno creduto. Era troppo tardi, però. Troppo tardi per te. 

L’ho capito quella notte. Forse l’ho sempre saputo, anche se non avrei mai immaginato che tu te ne andassi prima di me. Perchè tu mi rassicuravi. Eri forte, Anna. Mi hai sempre protetto.   

Ti giuro, bambina mia, vorrei essere al tuo posto. 

Vorrei che finisse questo dolore. 

Ma lo sai che non posso. 

C’è tua sorella. Antonella cresce bene. La vedo serena, nonostante tutto. Solo io capisco quanta sofferenza abbia dentro ancora da elaborare. Non riesce a pronunciare bene la lettera A in alcune parole. Anna, Antonella, Ada, il mio nome, Antonio il nome di tuo padre. A. 

C’è un uomo nuovo accanto a me che mi fatto capire che la violenza non ha niente a che vedere con l’amore. Ci sono i bambini a cui insegno. Devo andare avanti. 

Tante cose le ho capite. Non capirò, invece, mai l’odio di tuo padre verso di me. E, di conseguenza, verso di noi. Fino all’ultimo mi ha guardato con occhi di odio. “ Ci sarebbe dovuto essere un altro al posto di Anna,  disse il giorno dei funerali. E la gente lo rincuorava perchè pensava che si riferisse a lui. Io lo so, però, che si riferiva a me. Ma non l’ho detto. Non mi avrebbero creduto. 

Altre cose le ho capite, invece. 

Questi uomini violenti, tuo padre, quel ragazzo che t’ha ammazzato, non sono matti. No, Anna. Sono normali. Solo che non vogliono perdere. Non vogliono perdere il loro potere su di noi. 

Un’altra cosa che ho capito è che la violenza subita ti segna a lungo, forse per sempre. Ancora oggi provo un brivido lungo la schiena se mi accorgo di aver usato la pentola sbagliata, di non aver cambiato l’asciugamano sporco.  Eppure sono libera da più di 10 anni. 

E l’ultima cosa che ho capito è che tu sei morta perchè non hai riconosciuto il pericolo. Perchè con il pericolo tu ci hai convissuto così a lungo che è diventato abituale, usuale. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Per noi quel pane era la violenza. 

Non ho mai voluto parlare con nessun giornalista, ma adesso è il tempo di farlo. Voglio dire a tutte le donne, a tutte le persone che possono farci qualcosa, agli uomini che vogliono essere dei padri e dei compagni amorevoli che i bambini e le bambine non devono crescere in un ambiente violento. Per tanti motivi ma, soprattutto, perchè non riconoscono più la violenza come un pericolo. 

Le nostre bambine non devono pensare che la violenza sia la normalità. Devono crescere libere e avere il diritto a progettare la loro felicità. 

(testo raccolto da Vanna Ugolini)   


LE STORIE DI MARGOT sono parte di una storia più grande, quella di una rivoluzione sociale e culturale che nei secoli conta faticose e imprescindibili vittorie, a fronte di un numero incommensurabile di vittime. La storia dei primi due anni di attività di Margot sono tante storie. Durante il convegno verranno raccontate da alcune delle donne e degli uomini che le raccolgono e se ne curano, per prendersi la responsabilità personale, giorno per giorno, svolta per svolta, trama per trama, di cambiare storia.

Ogni storia è un simbolo e insegna qualcosa: quello che non funziona nelle rete degli operatori istituzionali ma anche le tante facce, meno conosciute della violenza, dei suoi effetti e di chi, suo malgrado o volontariamente ne è stato protagonista.

“Racconteremo l’appello della madre di una ragazza uccisa in Umbria dal compagno, quelle degli uomini che cercano di cambiare e di, altri, invece, il cui cambiamento è ancora lontano nonostante abbiano già scontato la loro pena. – spiegano gli organizzatori dell’incontro – Apriremo altre porte sul mondo della violenza meno conosciuta, sul concetto di vittima usando più di uno strumento comunicativo: dalla relazione alla lettura alla rappresentazione teatrale”.

Al convegno interverranno :

Giovanni Paciullo, Magnifico Rettore dell’università per Stranieri di Perugia

Fausto Cardella, procuratore della Repubblica presso il tribunale de L’Aquila

Carmelo Gugliotta questore di Perugia

Vanna Ugolini presidente Margot

Angelo Biondo esperto di protezione personale ministero dell’Interno

Emanuele Florindi avvocato

Lucia Magionami psicologa-psicoterapeuta

Antonella Piccotti insegnante

Con il contributo di Compagnia degli Gnomi