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di Cristiana Dominici – Libertas Margot, associazione che si occupa di violenza di genere, tutela dei diritti umani e sicurezza delle persone, è stata selezionata a presentare il libro “Non è colpa mia” – voci di uomini che hanno ucciso donne, scritto da Lucia Magionami, psicologa, e da Vanna Ugolini, presidente dell’associazione “Guardami oltre”, nella rassegna di progetti artistici a sostegno di categorie fragili, tenutasi dal 7 al 10 febbraio a Sanremo, durante i giorni del Festival.

 

A kermesse conclusa, si può andare oltre, e “Non è colpa mia”, è un libro necessario. Vanna analizza il “femminicidio”, attraverso una serie di interviste ad uomini che hanno ucciso la compagna, con sentenze di colpevolezza definitive.
«Il femminicidio – scrive Vanna nella premessa – è un neologismo inserito nel vocabolario e nel codice penale italiano per definire un reato che fino a poco meno di quarant’anni fa era classificato dalla Giurisprudenza italiana come “Delitto d’onore”, diventato ormai emergenza nazionale».
Siamo giunti dunque nell’epoca in cui Diego Fusaro, classe 1984, filosofo e sedicente saggista pseudointellettuale onnipresente su facebook delira e descrive così il femminicidio: “Lemma della neolingua capitalistica, che mira ad occultare la lotta di classe sotto la vernice della lotta dei sessi”, oppure: “Il grande starnazzare sulle molestie sessuali arma di distrazione di massa”, è opportuno cogliere la differenza tra impegno e show.

 

E, anche al tempo in cui Michelle Hunziker si fa paladina delle donne che hanno subito violenza. Dal palco dell’Ariston, nella terza puntata, è la protagonista del flashmob in cui scende le scale intonando “I maschi” di Gianna Nannini e tra “Una donna cannone” di Francesco De Gregori e “Quello che le Donne non dicono” di Fiorella Mannoia, invita tutti insieme appassionatamente a combattere la violenza.
Forse è giunto il momento di tracciare un confine tra inchiesta e canzonetta, e soprattutto distinguere bene tra associazioni vere e quelle presunte.
Michelle Hunziker ha fondato, insieme all’avvocato Giulia Bongiorno, “Doppia difesa”, onlus nata nel 2007 con la pretesa di aiutare le donne che hanno subito violenze, discriminazioni e abusi. Selvaggia Lucarelli dal suo blog, si scaglia contro l’associazione chiedendo alle coofondatrici di mostrare i bilanci, poiché pare che al centralino non risponda mai nessuno. La bagarre è in corso, Selvaggia continua ad incalzare e Michelle a difendersi, tra presunte diffamazioni e minacce di querele.
Posso affermare per esperienza personale, che Liberts Margot, a chiamata risponde, e che Vanna ci mette la faccia, poiché mi accompagnò a denunciare “un reato minore”, e non solo.

Conobbi Vanna nel 2011, in occasione della presentazione di un altro libro: “Nel nome della cocaina”, un’inchiesta sul fenomeno dello spaccio a Perugia in quegli anni saltata alle cronache per un triste primato, quello dei morti di overdose e per la definizione di capitale dell’eroina all’inchiesta de “Gli intoccabili” su La 7.
Vanna racconta il mondo dello spaccio intervistando i pusher e cercando risposte ad un fenomeno che era, ed è tuttora, necessario arginare. Mi colpì il coraggio di andare dietro le quinte, e la determinazione a cercare soluzioni che potessero arginare la criminalità.

Non è colpa mia, è anch’esso un atto di coraggio, quello di far parlare tre assassini, tutti e tre liberi (e lo dico trattenendo i conati di vomito). Come racconterà Vanna, l’essere stata giornalista di cronaca nera per vent’anni non insegna dove sistemare il dolore con il quale ci si confronta, e il raccontarlo è una sorta di rito per salvarsi, una catarsi.
I tre omicidi intervistati, Luca, Giacomo e Luigi, sono straordinariamente simili. Per nessuno è stata colpa loro.
Luca, “innamorato della divisa”, ha l’unico cruccio di non poter fare il poliziotto. E non mostra nessun pentimento per il fatto di aver ammazzato con dieci colpi di pistola una donna prima tradita e poi sottoposta a violenza psicologica. Certo, lui voleva suicidarsi, tantoché puntò la pistola alla tempia, ma poi chissà perché, i colpi, non uno ma dieci, sono andati a vuoto, dentro l’ascensore. Maledetta la neve, era colpa del freddo.
L’altro assassino, Giacomo, nell’intervista definita “partita a scacchi”, alla quale Vanna non ha mai fornito l’occasione dello scacco matto, non è dissimile.
Un’altra donna uccisa a colpi di pistola. Pare che la colpa sia imputabile ai presunti tradimenti di lei e non dei suoi, che a riguardo minimizza. Ed avendo i reciproci tradimenti accezioni diverse, la responsabile al 70% è della donna e dunque è legittimo far fuori la madre dei tuoi figli. Una tesi che non condivide il figlio rimasto orfano. “Perché l’hai fatto? Perché ci hai tolto la mamma quando era buona con tutti? Perché ti rifai una vita quando lei non può più e io, io nemmeno sento di farcela senza di lei?”.
L’ultimo dei tre, Luigi, non ricorda nemmeno di aver investito la moglie con un trattore e di averla schiacciata. Per lui è semplicemente deceduta. E nelle sue parole si coglie una totale deresponsabilizzazione, una distanza abissale dall’orribile crimine compiuto.

Libro necessario per andare oltre il “condizionamento culturale” e la manipolazione della realtà.
Va da sé che un uomo maltrattante va denunciato prima che diventi un assassino, ed è indispensabile agire e mai subire.
Perché bisogna ricordarsi che la scelta legittima di “portare avanti un rapporto sentimentale oppure no” prevede rischi. Così come la non elaborazione del rifiuto. E non è da sottovalutare il maltrattamento psicologico.
Certo non è facile, perché è ancora luogo comune che la “colpa” è sempre della donna che si ribella all’arroganza.

Ed eccoci dunque arrivati alla mia testimonianza.
Quando scelsi di denunciare le minacce ricevute, mi trovai il mondo contro.
Ricordo il ricatto degli amici del soggetto che mi tormentava. Loro mi dissero a chiari note che mi avrebbero consentito l’accesso al gruppo solo dietro il ritiro della querela. Non accettai e pagai con l’esclusione, il silenzio assoluto e la conseguente morte civile.
Alla richiesta di sporgere querela ricordo il carabiniere che disse: “Non lo conosco”, lasciandomi in sala d’attesa senza una risposta rassicurante. E poi il comandante della stessa che si irritò poiché nel frattempo avevo chiamato la Polizia, per capire se stavo perdendo tempo, e con la quale peraltro ero in contatto da giorni, e che mi aveva consigliato di denunciare chi mi minacciava, che peraltro aveva precedenti penali.
Eppure non mi stavo divertendo ad attivare una competizione tra corpi, semplicemente, avevo paura.
“È la divisa che fa dimenticare quello che la indossa”, Enzo Biagi dixit. Talvolta, non sempre, per fortuna, ci sono anche i Massimo Pici e Marco Lalli, che Vanna nel suo libro ringrazia, poiché il loro sostegno è stato fondamentale.
Ma è grave anche le accuse rivoltemi da un presunto giornalista che non aveva gradito il fatto di aver raccontato la mia storia attraverso una metafora in una testata che presumibilmente non era di suo gradimento. Mentre qualcun altro mi ha chiesto se in quella fiaba c’è qualcosa di te. Non importa. La violenza è una scelta da non fare, e denunciarla così come l’educazione, restano le uniche armi possibili per tentare di arginare il fenomeno.

“Dopo ho avuto paura. Non per me. Per mia figlia. Ho avuto paura perché guardavo quell’uomo e lo immaginavo da giovane”. Così dichiara a Vanna una delle intervistate. Disegnando il profilo di “un tipo normale, forse anche uno simpatico”. “Uno di quelli di cui mia figlia si potrebbe innamorare”. Ecco, lo stesso sgomento che che ho avuto anche io e che mi ha attanagliato il cuore.

 

Grazie a Cristiana Dominici per la recensione.