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Uno spettacolo che nasce dal libro-inchiesta di Vanna Ugolini, giornalista de Il Messaggero, e del sovrintendente di polizia Massimo Pici e realizzato dalla drammaturga e attrice Chiara Meloni in collaborazione con Massimo Capuano.

In scena Chiara Meloni, nella parte di una giornalista, intervista  tre uomini che hanno ucciso le donne che dicevano di amare, cerca di indagare nelle loro coscienze. Questi tre uomini, però, tutti e tre interpretati da Massimo Capuano, cercano empatia, sostegno, compassione, e solo in apparenza collaborano alla narrazione dei fatti, con parole che suonano false.

Post.it  intervista Chiara Meloni e Vanna Ugolini 

Vanna, perché è così difficile denunciare le violenze da parte dei propri compagni?

Perché sono storie di violenza che nascono dentro storie d’amore. E’ proprio questo che trae in inganno una donna. Se io vengo picchiata da uno sconosciuto per strada, immediatamente ho una reazione, denuncio, mi difendo. Se, invece, a picchiarmi è l’uomo con cui ho in comune un progetto di vita, allora la cosa può confondermi, mi posso addossare colpe e responsabilità.

 

Il femminicidio è un fenomeno solo italiano? No, non è fenomeno solo un italiano. Anzi, è un fenomeno completamente trasversale, che non conosce limiti né di razza, religione, politica, censo, cultura., è un fenomeno per così dire “democratico”.

Perché i media usano il termine femminicida e non assassino? Non corriamo il rischio di dare a questo reato un risvolto psicologico che col tempo potrebbe diventare una sorta di giustificazione?

Non c’è alcun risvolto psicologico. Indica la morte violenta di una donna per il solo fatto di essere donna e ha una radice storica.

Chiara: Esiste il Telefono Rosa, in ospedale c’è un Codice Rosa, ci sono i Centri Anti Violenza, nati per accogliere le donne che vogliano uscire da situazioni di violenza, spesso domestica, perché nella maggior parte dei casi è perpetrata dal partner o dall’ex partner. Inoltre da qualche anno esistono anche Centri di Ascolto per Autori di Maltrattamenti.
Purtroppo i vuoti legislativi, la mancanza di fondi e la mancanza di formazione sul tema da parte delle figure chiave come forze dell’ordine, avvocati, operatori sanitari, non permette un’adeguata risposta al fenomeno.
Le associazioni che si occupano di violenza di genere fanno il possibile per coprire questi vuoti.

Cosa accade ai figli che sopravvivono a questa tragedia? 
Chiara: Purtroppo è molto difficile trovare risposte adeguate alla condizione terribile in cui si ritrovano i figli di una donna uccisa, anche perché spesso l’assassino è il loro stesso padre.
In Italia, a dicembre, è stato finalmente approvato un decreto di legge che tutela gli orfani di femminicidio, ma solo un lungo lavoro di rielaborazione del trauma può dare speranze perché i bambini possano crescere come adulti responsabili ed equilibrati.

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Le strutture per evitare che si arrivi a questo, ci sono? Sono adeguate?

“Non è colpa mia, sei tu che….” Tante donne conoscono questa frase. Neanche vedere un  corpo straziato li aiuta a comprendere la gravità del loro gesto?

Chiara: Uno dei tre uomini continua a negare con ostinazione di aver ucciso la moglie, anche dopo 23 anni di carcere. Gli altri due, uno dei quali è stato colto in flagrante perché ha sparato in pubblico, non possono certo negare e, inoltre, comprendono bene la gravità del fatto. Ma, in un modo o nell’altro, questa gravità la fanno pesare su se stessi, mettendo in evidenza il proprio misero stato e prendendo troppo poco in considerazione, invece, la vita che hanno spezzato: parlano di come sarebbero potuti star bene adesso se non avessero fatto quello che hanno fatto, mentre spendono poche o nessuna parola per descrivere il futuro che hanno negato alla donna che hanno ucciso.
Inoltre, tutti e tre gli intervistati tendono a sottolineare di non essere persone violente, di non aver mai alzato le mani, o di averlo fatto solo in casi rarissimi, come se uccidere fosse meno grave che picchiare, come se uccidere da lontano, con una pistola, non sporchi le mani e quindi neanche la coscienza.
E senza considerare che la violenza psicologica è grave quanto quella fisica. O che aver vissuto la relazione identificandola con la proprietà e non aver voluto imparare a tollerare un rifiuto li stava conducendo a quell’esito tragico.

 

Chiara in che senso  il tempo è uno dei fili conduttori che lega le storie raccontate in scena?

Ascoltando e riascoltando l’audio delle tre interviste, abbiamo notato una discrepanza tra il comportamento che descrivono fino al giorno del delitto e quello che poi è avvenuto quel giorno. E’ chiaro che i due uomini non raccontano la progressione dei loro pensieri verso l’idea di uccidere, ma vogliono far passare quel momento come se fosse stato un “raptus”, mentre chi studia il fenomeno della violenza di genere sa bene che il “raptus” non esiste ed è solo una scusa, perché si tratta sempre di un progredire di eventi e di una questione di scelta.
Quello che non torna è il tempo che hanno avuto per pensare, mentre prendevano la pistola e la portavano con sé, per un’intera giornata o più. Avrebbero avuto tutto il tempo per scaricarla o metterla via, non si può ridurre tutto all’attimo degli spari, c’è tutto il prima che non torna.
Un’altra cosa che non torna e che ha a che fare col tempo è la brevità del periodo di detenzione. Due degli intervistati hanno ottenuto la semi libertà dopo appena 10 anni o meno dall’incarcerazione. Per di più, questo tempo sembra essere stato molto mal speso, in quanto non li ha portati ad elaborare l’accaduto a fondo.
Solo in un caso, tra questi tre, l’uomo ha scelto di intraprendere un percorso psicologico.
Allora, per lo spettacolo ho scritto dei testi che riflettono proprio sulla natura del tempo, negando che il tempo sappia davvero curare o rimettere a posto le cose, perché se non è la persona ad attivare la propria volontà e ad agire perché questo avvenga, il tempo rimane vuoto, come il tempo passato in carcere che, se non viene impiegato nella rieducazione, può essere completamente privo di senso, soprattutto quando è troppo poco.

Ma come può una donna “avere colpa” delle violenze che subisce?

Anche quando dicono “è colpa mia”, gli uomini qui intervistati cercano comunque di mettere in evidenza le attenuanti, che si tratti di un tradimento, di un rifiuto o di un atteggiamento della donna per loro intollerabile. E quando si tratta di rispondere, ad esempio, al perché abbiano caricato una pistola e l’abbiano portata con sé ad un appuntamento con lei, questi uomini non ricordano, hanno dei vuoti di memoria, che giustificano con l’agitazione del momento, senza spiegare perché non abbiano cercato un’altra soluzione.
Questa deresponsabilizzazione, che accomuna nella maggior parte dei casi gli uomini violenti, pur avendo in parte una matrice culturale radicata nella società, con origini antiche, che rientra nella logica del possesso e della disparità di ruoli, ad oggi non ha più ragione di esistere. Purtroppo la maggior parte degli uomini violenti continua a rifiutarsi di compiere, ad esempio, un percorso di psicoanalisi o di psicoterapia perché non riconoscono la propria colpa, ma tendono ad attribuire tutte le responsabilità delle proprie azioni all’atteggiamento della donna.
Le donne, da parte loro, sono immerse nello stesso contesto culturale, vittime degli stessi retaggi, e spesso messe dalla società stessa in condizioni di dipendenza, sia psicologica che materiale e, soprattutto quando crescono in ambienti familiari violenti, non sono più capaci di distinguere la violenza, perché la violenza e il pericolo sono diventati “normali”.

Vanna, quando un uomo inizia a sentirsi legittimato ad adottare comportamenti vessatori nei confronti di una donna?

Quando nel rapporto di coppia si instaura una relazione di potere. Quando lei è una persona più fragile o più innamorata. Quando lui non riesce ad avere un rapporto alla pari e allora cerca di ottenere quello che vuole con la violenza, sia essa fisica, psicologica, sessuale, economica.

Qual è l’ambiente dove si dovrebbe immediatamente intervenire? famiglia, scuola, strutture religiose, comunicazione,…..

Non c’è un percorso temporale. Tutti gli ambiti dovrebbero muoversi insieme. La scuola, certamente, ma anche la formazione degli operatori istituzionali che lavorano con la violenza: sanitari, forze dell’ordine, assistenti sociali, magistrati

Perché solo ora sembra che le donne stiano imparando a denunciare?

Perché magari si ha paura, perché c’è un rapporto di potere che vede la figura femminile ricattabile – o stai con me o perdi il lavoro -, perché i tempi psicologici di una donna che subisce una violenza e, quindi, un trauma, sono diversi da quelli della giustizia e sono diversi da persona a persona. Perché le vittime provano vergogna e quindi si sentono più forti se non sono sole. Bisogna trattare questi argomenti con serietà e non con la voglia pruriginosa di vedere solo l’aspetto scandalistico, altrimenti facciamo danni. Danneggiamo le vittime ma anche chi può essere accusato falsamente e si trova comunque processato senza il diritto al contraddittorio e alla difesa.

La Compagnia degli Gnomi ha qui collaborato con l’associazione Libertas Margot. Vanna, tu sei tra i fondatori di questa associazione. Cos’è Libertas Margot?

E’ un’associazione nata nel 2013 a Perugia che si occupa di violenza di genere, composta da professionisti che declinano le loro competenze per il sociale.  Ha come obiettivo quello di contribuire a creare una diversa cultura “di genere”.  Libertas Margot ha attivato un percorso di denuncia protetta per le donne vittime di violenza, un prestito d’onore per le donne che hanno bisogno di sostegno per ricostruire la propria vita una volta uscite da una situazione di violenza, corsi di formazione per le figure chiave, ha aperto MargotNet, centro d’ascolto per uomini che agiscono violenza, e una serie di altri progetti volti ad arginare il fenomeno e a diffondere buone pratiche. ( http://www.margotproject.org/wp/margot-net/)

Contro la violenza economica di cui le donne restano purtroppo vittime anche dopo un percorso di uscita dalla violenza abbiamo creato una start up artistica e solidale, un prodotto che abbiamo portato anche ad una sfilata di moda etica a Parigi.

Chiara perché avete scelto di vedere questo fenomeno dal punto di vista maschile? Quanto è più utile far parlare gli uomini, soprattutto alla luce del fatto che i diretti interessati ignorano il concetto di assunzione di responsabilità?
Perché sono convinta che il fenomeno vada studiato da tutti i punti di vista.
Se la violenza è agita da qualcuno, è anche su quel qualcuno che è necessario intervenire in senso preventivo, oltre che punitivo. Per intervenire, però, è necessario comprendere cosa ci sia alla base dei comportamenti violenti degli uomini nei confronti delle donne, e queste tre interviste hanno fornito ai professionisti dell’associazione un utile materiale sul quale riflettere, innanzitutto perché si tratta di uomini molto diversi tra loro, eppure accomunati da simili schemi di comportamento.
In quanto socia di Libertas Margot e in quanto regista di Compagnia Degli Gnomi, mi sono impegnata a dar risalto alle parole di questi tre uomini perché sia evidente lo spaesamento in cui ci troviamo.
Gli interrogativi che vogliamo far emergere in chi ascolta sono molteplici, tra questi vorremmo che sempre più persone si chiedessero perché non esistano in tutti gli istituti penitenziari seri percorsi di rieducazione, perché non si faccia maggiore prevenzione nelle scuole dato che la scuola può opporsi a certi retaggi culturali, perché non ci sia una maggior attenzione all’educazione affettiva per ostacolare la concezione di amore come possesso, perché le detenzioni siano così brevi e perché ancora nei tribunali sembri persistere l’eco di quell’abominevole articolo sul “delitto d’onore”, abrogato appena 27 anni fa, nel 1981 (https://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_d%27onore).
Questi sono solo alcune delle domande che vorremmo che il pubblico si facesse uscendo da teatro dopo il nostro spettacolo.

E tu quale obiettivo ti proponi di raggiungere con questo spettacolo che non sia stato raggiunto con altre forme di comunicazione?
Lo spettacolo vuole innanzitutto dare peso alle parole dei tre intervistati, illuminarle e fornirgli un corpo. Il teatro dà nitidezza a questa parole. Soprattutto, attraverso l’analisi drammaturgica e il taglio del racconto orale, il linguaggio teatrale fa risaltare i nessi e le corrispondenze tra le tre interviste, in un modo immediato e simbolico che parla anche all’inconscio, permettendo all’intuizione di entrare in gioco di fronte agli interrogativi posti dalle tre storie.
Al di là del fatto che questi uomini non avrebbero acconsentito ad apparire in video, se fosse stato realizzato, ad esempio, un documentario delle interviste, o una ricostruzione filmica dei fatti, avrebbe sicuramente avuto la sua funzione, ma diversa da quella dello spettacolo. E questa differenza risiede proprio nella differenza tra video e teatro: nel fatto che il teatro sia dal vivo, che il tempo e lo spazio dell’attore corrispondano a quello dello spettatore. Tutto questo mette lo spettatore in una condizione necessariamente diversa, attivando una capacità critica diversa, da un lato più distaccata e più cosciente degli aspetti della simulazione, dall’altro coinvolgendo invece aspetti emotivi e inconsci diversi da quelli che si attivano di fronte ad uno schermo.
Quindi, il teatro, è un altro dei modi possibili per attivare la riflessione. E più la riflessione si attiva a diversi livelli, più penetra in profondità, più c’è speranza che le cose cambino.
Vanna, perché hai accettato di portare in teatro il tuo lavoro di giornalista?

Perché spero che lo spettacolo sia in grado di mettere a nudo, “svelare”, il tema della violenza di genere che oggi è ancora raccontato in maniera spesso sbagliata. La narrazione dei fatti e i termini che si usano per raccontare la violenza sono spesso fuorvianti. Lo spettacolo e il libro raccontano storie vere, usano le parole giuste e svelano, appunto, cos’è la violenza di genere: l’esercizio del potere di una parte sull’altra che si snoda in un lungo percorso cadenzato dai ritmi della vita quotidiana, un sentiero lastricato di silenzi, fragilità, incomprensioni, inganni. E violenza, appunto.

Il raptus non esiste. La violenza è un percorso e una scelta. Una scelta che noi condanniamo. Proprio perché è una scelta e non un destino, come i tre assassini vogliono far credere. Però, il cambiamento è possibile, faticosamente possibile, e dalla violenza si può uscire.

Nel suo libro scritto a quattro mani insieme alla psicologa  Lucia Magionami, Vanna scrive: Ci sono mille altri modi diversi dalla violenza per chiudere una relazione.  La violenza è una scelta. Una scelta da non fare.”

Anche subire è una scelta. E anche quella è una scelta da non fare.

Alessia de Antoniis