Terza conferenza dei centri antiviolenza L’Aia 3-6 novembre 2015

3rd World conferenze women’s shelter 

Si sente già la nostalgia. Per le persone che si sono appena incrociate e con cui ci si sarebbe voluto confrontarsi di più. Per quelle che non siamo riuscite a conoscere in quel frenetico giro di conferenze e di plenarie, di scambi di biglietti e volantini, di incroci di sguardi, sorrisi, speranze che è stata la terza conferenza mondiale dei centri antiviolenza, semplicemente un altro punto di vista, quello degli strumenti, per parlare di violenza di genere. E viene voglia di socchiudere gli occhi. Per immaginare. Per non vedere anche. 

Mille persone da 115 paesi diversi, quasi tutte donne, a raccontare speranze, lavoro, impegno, valori, ma anche dolore, alla conferenza mondiale dei centri antiviolenza che si è tenuta dal 3 al 6 novembre a L’Aia. Si possono solo immaginare i sogni, le ferite, i traguardi e le sconfitte del lavoro di tutte le donne impegnate sul fronte della violenza di genere. Qui non si scappa. Ce le hai davanti, davanti agli occhi e poi dentro al cuore le donne vittime di violenza, le testimoni di questa ferita aperta che sanguina in tutto il mondo. Che siano le vedove del Nepal, date in sposa da bambine e che molto giovani rimangono sole e diventano vittime di abusi o le autonome donne del Nord Europa. Che siano le ragazze vendute dalle famiglie ai trafficanti di corpi o la bella modella finita nelle mani della persona sbagliata.

Non puoi trincerarti dietro le definizioni, lì davanti a te ci sono le vittime, anzi, le sopravvissute ad un conflitto che si combatte ogni giorno dentro le mura di tante case. Te la raccontano quella violenza, in tutte le lingue del mondo e quando non sono loro, a raccontarla sono i testimoni, quelli e quelle che le hanno curate, raccolte e accolte. Sepolte, a volte. Ecco, allora, che già sul tram che porta in stazione salgono fitte della nostalgia. Si socchiudono gli occhi per cercare di rivederli quei visi, quei vestiti colorati, quegli sguardi a volte carichi di pena ma anche di speranza.

E si socchiudono gli occhi anche per non vedere, tutte insieme, quelle donne, milioni, che ogni notte dormono nei rifugi anti violenza. E quelle ( Bandana Rana, la presidente mondiale dei centri antiviolenza che spera di mettere in rete, per quest’anno, almeno 100 paesi – ha calcolato che ogni notte, in 46 paesi di questo pianeta – sono tanti i paesi che fanno parte della rete dei centri antiviolenza – oltre 7000 donne e 450 bambini restano fuori dalla porta dei centri per mancanza di posti o di risorse) che dentro i rifiuti non riescono ad entrare.

Viene da socchiuderli gli occhi perchè davanti a tutto questo dolore che arriva a ondate ti rendi conto di quanto lavoro ci sarebbe da fare a tutti i livelli, di quanto sono fatue e polverose tante parole dette dalla politica,  di quanto poco, probabilmente, si sta facendo in tutto il mondo. I numeri dei centri più grandi, dei progetti più importanti che vengono portati avanti dai paesi che prima e meglio hanno investito (il Nord Europa, il Canada, l’Australia, l’America) sono di qualche centinaia di persone seguite ogni anno. Di fronte a una violenza così volgare e diffusa, così immediata e tutto sommato facile da mettere in atto è necessario un lavoro lungo, raffinato, personalizzato, costoso. E, in molti paesi, i centri antiviolenza, i rifugi, mancano del tutto. 

E, però, la conferenza è stata anche il momento di guardarsi negli occhi, di scambiarsi esperienza, di rendersi conto che, in fondo, altre strade non ce ne sono: cambiare le leggi, rafforzare quelle buone che ci sono, lavorare con le persone, con le donne e con gli uomini, accogliere, fare pressioni, fare lobbing perchè gli stati si muovano, perchè la politica vada nella direzione giusta. Azioni che vadano in più direzioni, dal generale (quadri legislativi da più parti considerati determinanti), lavoro sulle persone, ricerca di nuovi strumenti per andare incontri alle esigenze delle sopravvissute. Per questo, alla fine, quando le coordinatrici dell’incontro hanno chiesto di gridare parole che dessero il senso dei quattro giorni passati a l’Aia, la platea ha risposto con parole positive: empowered, inspired, hopeful, energic. 

Nello spot che ha raccolto le immagini dei quattro giorni della conferenza, molto ben organizzata ma così carente dal punto di vista della comunicazione, Miss Coraggio, la modella israeliana, vittima di stupro a Milano nel 1998, che ha avuto il coraggio di denunciare, conclude il video dicendo Women together is power. Non so se è lo slogan che preferisco. Quel power mi ricorda tanto il “power and control” , parole che le vittime di violenza usano quando raccontano come hanno percepito il comportamento tenuto dallo stupratore. “Power and control”, non certo amore nè, tantomeno, raptus. Così mi piacerebbe che le donne insieme fossero, più che il potere, la libertà. E se proprio la libertà deve passare dalle stanze del potere, che almeno lo faccia con passo leggero, quasi danzante e abiti colorati.