Terza conferenza mondiale dei centri antiviolenza 3-6 novembre 2015

3rd World conference women’s shelter 

Non solo denuncia ma anche tanti, tantissimi esempi di come, nel mondo, si cerchi di dare risposta alle violenza contro le donne. La terza conferenza mondiale dei centri antiviolenza che si è svolta a L’Aia dal 3 al 6 novembre è stata l’occasione non solo per denunciare il fatto che la violenza contro le donne è planetaria, è una violazione dei diritti umani e una questione politica, sociale ed economica ma anche per confrontarsi su come, in tutto il mondo, si diano risposte sia di sostegno alle donne sopravvissute sia di lavoro con gli uomini maltrattanti. Decine di appuntamenti suddivisi in quattro giornate. Ecco qualche flash.

L’esperienza di The Haven Wolverhampton Uk. Head of operation: Michaila Tope. Il centro antiviolenza si trova in Inghilterra e si occupa di dare rifugio a donne vittime di violenza, bambini e senza tetto. La particolarità di questo centro antiviolenza è che ha organizzato un progetto per combattere la violenza economica e quindi si impegna a dare alle donne strumenti adeguati per uscire dal centro in grado di trovare un lavoro qualificato ma anche di districarsi fra problemi economici quotidiani (aprire un conto, conoscere le opportunità che offrono le varie banche e così via). Lo stesso centro ha aperto rapporti con le banche e le istituzioni finanziarie affinchè le donne possano trovare canali di finanziamento accessibili. Il centro riceve in minima parte finanziamenti pubblici e ai autofinanza con donazioni e con una lotteria. 

L’esperienza della Maastricht School of management. Qui siamo su un altro piano. la professoressa onoraria Josette DiJkuizen, docente di sviluppo imprenditoria, lavora su un livello completamente diverso: secondo la prof le donne devono aver un coach che le prepari all’uscita dalla violenza ma anche un consulente economico. La prof ha spiegato in dettaglio quale sia il metodo che lei usa con le donne che stanno nei rifugi, tutto incentrato sulla loro preparazione ad affrontare con competenze economiche il mondo, una volta che saranno fuori.

Victoria, Australia. Così i media rispettano le donne vittime di violenza. La sociologa Nirai Melis, la manager che si occupa di progettazione dei media Vanessa Born, Robyn Trainor, che si occupano di prevenzione e gestione dei centri antiviolenza, Nicole Ferri, editor del Bendigo Advertiser hanno spiegato con nella zona di Victoria, Australia, ci sia attenzione a come si danno le notizie sulla violenza di genere ma, anche, come sia importante raccontare storie di donne. “Se non si raccontano le storie delle donne non verranno mai messi in evidenza i problemi che ci sono. E se non ci sono problemi non ci sarà nemmeno la ricerca delle soluzioni”.  I media influenzano i valori della nostra società. Attenzione a quali foto mettere. 

In effetti sulla prima pagina della versione on line dei Bendigo Advertiser, c’è una parte dedicata alla violenza di genere.

Family Justice center in Europe. Interessantissima la relazione di Pascale Franck, Fjc Anterwerp, belga e dell’olandese Bert Groen, presidente dell’alleanza dei centri di giustizia per la famiglia. Si tratta di un’esperienza che coivolge 9 stati europei ed è finanziata con fondi europei. Sotto lo stesso tetto lavorano gomito a gomito diverse professionalità che servono alle donne e ai bambini che subiscono violenza, dal medico all’assistente sociale, al poliziotto, all’avvocato, addirittura al magistrato nelle nazioni in cui questo è possibile e così via. In questo modo le vittime di violenza non devono subire un’ulteriore vittimizzazione per ricevere giustizia. Si tratta di una delle esperienze più avanzate nel mondo che ha come obiettivo futuro quello di fare una corte di giustizia specializzata in questo tipo di delitti. 

Save future. Si chiama Save future ed è un progetto e una metologia ormai collaudata per il recupero delle donne vittime di trafficking, in particolare di quelle che decidono di tornare al paese d’origine. Grazie a questo metodo e al collegamento con un centro antiviolenza che sta a Laos in Nigeria, gestito da una suora, c’è la possibilità per queste donne di ricominciare nonostante i pericoli e i rischi in cui incorrono: sono le stesse famiglie, infatti,a ripudiarle nonostante siano state costrette a prostituirsi dai trafficanti di uomini e donne.

Il progetto è olandese e ha, come strutture, sei rifugi mentre l’organizzazione religiosa si chiama Cosudow.

Sono circa 200 le ragazze che vengono inserite in questo progetto, che è finanziato con soldi pubblici (ministero dell’Interno e delle politiche sociali).

Un centinaio, invece, sono quelle che ogni anno riescono a reinserirsi con un progetto analogo che viene tenuto in Albania, che si sostiene con finanziamenti privati e fondi europei e si chiama Different and Equality. 

La Finlandia dal 1 gennaio 2015 ha promulgato una legge che prevede il finanziamento pubblico dei centri antiviolenza, ha fornito una serie di condizioni di qualità a cui i centri devono attenersi e prevede un monitoraggio dei risultati. Il coordinamento viene fatto dal ministero della salute con un progetto che, almeno sulla carta sembra molto serio e dettagliato. La Finlandia si pone il problema di come rendere i rifugi accessibili alle donne con disabilità e di come aprirne altri anche in zone rurali. Altro pianeta, descritto dalla manager di Thl, un istituto pubblico che si occupa di sanità per il ministero della salute Helena Ewalds.

Si va in Canada con Sophia, un progetto che prevede il recupero degli uomini con comportamenti violenti. E’ un progetto molto simile per la sua struttura e l’impostazione psicologica a quello realizzato da Margot Net. Le psicologhe del centro che erano presenti hanno anche dato una loro spiegazione di come le donne possano cadere nell’inganno degli uomini violenti, analizzati grazie ad un suddivisione in quattro gruppi: l’uomo difficile, quello pericolo, il distruttivo e il funesto, quello che può provocare la morte. 

A New York, invece, il reverendo Gregory White applica una metodologia basata più un approccio culturale (che non prevede il contatto con il partner nè la verifica se l’uomo trattato dagli specialisti continua ad avere o meno un comportamento violento). Il lavoro è cominciato nei primi anni ’80 ed ora ogni anno il suo progetto, sostenuto dalla chiesa cattolica, lavora con 500 uomini.