A volte succede, è raro, ma succede che le emozioni che pesano in fondo allo stomaco diventino in un attimo leggere nuvole sparpagliate.

“Ero al quarto mese di gravidanza, sono andata a denunciare mio marito per le botte, non mi hanno creduto”. Succede che le sedie rimangano occupate fino a quando non si è spento l’eco dell’ultima parola e che sulle facce, le facce delle donne, si stampino nello stesso istante lacrime e sorrisi.

“Ho subito per tanti anni, ma non voglio farlo più, vivo per mia figlia, non voglio che lei pensi che ha una mamma debole”. E’ come trovare al primo colpo la combinazione sconosciuta della cassaforte dei ricordi, farli uscire storditi al sole dopo tanto buio. “Non torno più indietro. Non mi sento più in colpa. Nessuno mi deve mancare più di rispetto”.

Non credevo, ma è successo, l’altro pomeriggio a Cave, vicino Roma. Al teatro comunale è stata presentata l’associazione Dimensione Donna, e c’erano tutti, dal sindaco alla preside, dal parroco alle associazioni, alle forze dell’ordine. C’erano tutti ad ascoltare i pensieri, i progetti, le storie, i racconti di cadute e risalite. Un fiocco bianco al petto, emozioni sulle montagne russe.

C’ero anch’io, con l’associazione Margot di cui faccio parte, e sono stata molto felice di essere lì.

Queste sono state le mie parole.Appunti di pensieri. Grazie per le parole delle altre e degli altri.

 

Occuparsi di cronaca nera in questi ultimi anni, in regioni non pesantemente segnate dalla presenza della criminalità organizzata, perlomeno non nelle forme cruente delle faide e dei regolamenti di  conti fra bande rivali, ha voluto dire occuparmi, soprattutto di tre cose: droga, sfruttamento della prostituzione e femminicidi.

Forse per chi vive fuori l’Umbria può avere ancora quell’immagine di regione da cartoline, la verde Umbria, la regione del buon vivere e così via. Certamente questi aspetti sono  ancora presenti, ma l’Umbria, questa isola circondata dalle montagne anziché dal mare, è stata attraversata negli ultimi 15-20 anni da una serie di cambiamenti che ne hanno profondamente cambiato le dinamiche sociali e la qualità della vita, la cui portata non è stata compresa appieno dalle istituzioni e, quindi, non gestita con gli strumenti adeguati. Ancora oggi, naturalmente, queste dinamiche sono in corso e non vengono ancora comprese appieno.

Purtroppo l’Umbria è stata teatro anche di numerosi episodi di violenza contro le donne e di uccisioni di donne, di femminicidi.

Maria Geusa uccisa dall’orco.

E’ l’aprile del 2004 e un bimba di due anni e 7 mesi arriva moribonda in ospedale, tra le braccia di uno sconosciuto, un amico di famiglia. Operata d’urgenza non ce la farà a sopravvivere. E’ l’esempio estremo di violenza, un capolavoro dell’orrore e dell’indicibile, la violenza su una bambina, portata a termine con la complicità della madre.

Ecco, fare cronaca nera vuol dire anche confrontarsi con questo. Confrontarsi con il dolore per una bimba violata e uccisa, ma anche confrontarsi con il fatto che l’orrore può essere dentro di ciascuno di noi. L’uomo che violentò e uccise la bimba, l’amante della madre, è una persona normale. Non è il mostro, è uno di noi. Non possiamo trovare giustificazioni per cercare di metterci in salvo, per trovare conforto e pensare che a noi non succederà. L’assissino di Maria è stato dichiarato sano di mente e capace di intendere e di volere e colpevole, fino all’ultimo grado di giudizio, di omicidio e pedofilia. Colpevole anche la madre, per aver favorito gli incontri tra quest’uomo e la sua bimba.

La violenza, a volte, assume forme subdole: anche senza arrivare a questi estremi, che arrivano a toccare il fondo delle nostre coscienze, è dentro le nostre case, sono le persone più vicine a noi, le nostre madri, le nostre sorelle, che non se ne rendono conto o non vogliono farlo, che con i loro silenzi diventano complici del violento.

Purtroppo Maria non è stata l’unica vittima della violenza dell’uomo sui bambini, sui figli. Qualche mese fa “per amore” a Umbertide due bambini sono stati uccisi dal padre separato che non voleva farsene una ragione dell’indipendenza economica della moglie e della sua decisione di lasciarlo. Così ha tagliato la gola ai ragazzini, ha scritto “Ti amo” sul muro con raffinata perfidia. La vendetta perfetta nei confronti di una donna. Ieri quell’uomo si è ucciso in carcere.

Storie d’amore, storie di violenza

Nel 2007 le telecamere si accendono nuovamente sull’Umbria. Questa volta ad essere uccisa è Barbara Cicioni, una donna di poco più di trent’anni, incinta di 8 mesi. Non si riesce a salvare nemmeno la sua bimba, che si sarebbe dovuta chiamare Elena. Si grida alla banda di stranieri a un furto finito in tragedia, ma alla fine emerge che l’assassino è dentro le mura domestica, che ha uccidere Barbara e la sua bambina è stato il marito e futuro padre, quello che, davanti ai giornalisti, piangeva e mostrava la foto di Barbara nel giorno del matrimonio.

La storia di questa madre tenace, amorevole, sfortunata è emblematica, simbolica.

Barbara veniva picchiata dal marito praticamente da sempre, da quando erano ancora fidanzati. Ma Barbara lo ama.

Le storie di violenza partono sempre come storie d’amore, di passione.

Barbara era una donna autonoma, aveva un lavoro, gestiva una lavanderia ed era indipendente economicamente.La sua famiglia la spronava a lasciare il marito, una famiglia che era una sorta di clan che la isolava e proteggeva le violenze del marito. Nelle intercettazioni si sente il padre dell’assassino dire a uno degli altri figli “Le avrà dato un boccatone come faceva sempre”.

Barbara conviveva con la violenza, la subiva, subiva violenza psicologica  davanti ai figli e taceva. Anche questa è violenza. Si chiama violenza assistita: è quella che subisce chi sta a guardare il maltrattamento e spesso sono i figli.

Barbara Sperava che il marito cambiasse, sperava di riuscire a cambiarlo. Quante volte l’abbiamo pensato tutte? Forse ce l’abbiamo nel Dna questa sindrome della crocerossina.

Barbara, in un momento di disperazione più profonda era andata a denunciare la violenza e le era stato risposto dal carabiniere che prendeva la denuncia: “Signora, cosa ha fatto a suo marito per farsi picchiare?”. Così se n’era andata, senza firmare più quella denuncia.

Il 70 per cento delle donne vittime di violenza ha denunciato già almeno una volta le violenze subite.

Lui al processo racconterà la sua personale concezione di violenza: finchè si picchiava con la mano aperta e non con la mano chiusa, finchè non si faceva saltare un dente o non si mandava all’ospedale la moglie, non c’era violenza. Era la normalità.

Perchè Barbara non si ribella? Perchè non prende i suoi figli e non torna dalla madre, che più volte l’aveva invitata ad andarsene dal marito. Perchè, lei dice, non vuole far soffrire i figli.Solo per questo? Io credo che probabilmente Barbara non avesse la consapevolezza del suo valore, non pensasse di potercela fare da sola, non avesse la percezione della sua forza. Forse Barbara non si amava abbastanza, non credeva di meritarsi un uomo migliore. Forse è caduta nell’inganno dei sentimenti, in quella tela che le donne sanno tessere d’istinto, di relazioni da tenere insieme, ad ogni costo, a occhi chiusi. A testa bassa, a volte, purtroppo.

Gli ostacoli più difficili da superare sono quelli che non vediamo. Perché non sono davanti a noi, sono dentro di noi. Diventano limiti, confini che ci restringono l’orizzonte della vita e, finchè non riusciamo a renderli riconoscibili, a “vederli” non ci rendiamo conto che possiamo superarli. Rimangono un peso che portiamo dentro, senza renderci conto che è quello che ci affatica. Spesso le donne che accettano la violenza non hanno stima di se stesse, non si amano abbastanza perché nessuno glielo ha insegnato. Danno per scontato di non avere valore.

A volte mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente, nel rapporto fra i sessi, se sia donne sia uomini avessero la stessa forza fisica. Credo di no, credo che forse qualcosa sarebbe cambiato per gli uomini, che, magari, si sarebbero guardati dall’ingaggiare un match dall’esito indefinito, ma per le donne credo che il limite più grande sia la mancanza di consapevolezza del proprio valore.

Certo, non è facile uscire da questi percorsi dove la violenza si traveste da amore, il carnefice da vittima e il rapporto di coppia oscilla tra gli estremi della passione esclusiva e dell’umiliazione profonda: non è facile soprattutto se si è sole e si è isolate. E anche il mondo di fuori non sembra è pronto a farsi carico, a prendersi cura delle nostre ferite.

Pensate che fino a pochissimo tempo fa il coniuge che uccideva la moglie ne riceveva la pensione di reversibilità. Questa legge è stata abolita su proposta di una senatrice dell’Italia dei Valori che incontrò la madre la cui figlia era stata uccisa dal marito.

E, vi racconto, in maniera cinica, la storia di Michela. Michela era una ragazza sfortunata, le era morta la madre, non andava d’accordo col padre, viveva con la nonna. Non le era nemmeno andata bene con il fidanzato, che non accettava di essere stato abbandonato. La perseguitava, l’aspettava sotto casa, al lavoro per chiederle di tornare con lui. E’ l’antivigilia di Natale di qualche anno fa. Michela è al lavoro, lui le telefona, le chiede di scendere un attimo. Lei prende l’ascensore e tiene in mano un piccolo panettone. Lui, invece, si presenta all’appuntamento con una pistola. Quando si aprono le porte dell’ascensore, gliela scarica addosso. Bene, al processo lui racconterà questa versione: “Volevo suicidarmi, Michela per impedirmelo, ha girato la pistola e si è uccisa”. Perchè è normale che uno per suicidarsi, dopo aver perseguitato per mesi la ragazzi abbia l’intenzione di sparare un intero caricatore. Comunque un giudice gli ha creduto, almeno in parte, dato l’assassino se l’è cavata con 11 anni di carcere.

Più o meno il tempo che ci vuole per una separazione e un divorzio non consensuali….

Purtroppo  i meccanismi e i tempo della giustizia a volte non sono assolutamente adeguati alla situazione in cui si ritrovano le vittime di violenza.

Nei primi nove mesi del 2012 a Terni sono andati a sentenza 9 processi che riguardavano violenze alle donne. Bene, di questi processi, cominciati molto tempo prima, solo due si sono conclusi con la condanna dell’imputato per il reato per il quale era stato denunciato. Solo un marito violento è finito in  carcere. Negli altri casi le donne avevano ritrattato, avevano ammorbidito le loro accuse, erano, a volte, tornate a vivere con il proprio carnefice, perchè non avevano possibilità di sostenersi economicamente – un’ altra forma di violenta diffusissima – perchè avevano paura di perdere i figli. Una delle donne che aveva denunciato era scomparsa. I tempi della giustizia non sono compatibili con i tempi della vita e la voglia di ricominciare di chi ha subito violenza. Anche perché le donne non possono decidere solo per se stesse e mettono davanti l’amore per i figli.

E a questo proposito voglio ricordare la morte di Ovidio Stamulis, un ragazzo di 17 anni che viveva con la madre e il patrigno e ne subiva continuamente le violenze. Ovidio, che capiva la debolezza della madre che era soggiogata dal compagno e aveva paura di perderlo in quanto dipendeva da lui,  ebbe il coraggio di denunciare il patrigno e chiese di essere ospitato in una casa famiglia. Il giorno in cui tornò a casa con la sentenza che prevedeva che il ragazzo sarebbe potuto andare a vivere in comunità il patrigno lo uccise a colpi di mattarello. E’ inspiegabile come nessuno fosse intervenuto in maniera decisiva fino a quel momento e come Ovidio, in un momento così conflittuale, non godesse di un minimo di protezione.

Tutte queste storie e tante altre che vi avrei potuto raccontare, hanno una cosa in comune: sono morti che si sarebbero potute evitare,. Maria andava a scuola con le guance arrossate. E’ vero, era arrivata da poco, ma che fosse una bambina poco seguita era chiaro: ancora non parlava. Barbara, Ovidio, la madre dei due figli uccisi e quei poveri bambini, Michela.

E le donne che hanno abbassato la testa mentre aspettavano una sentenza che arrivava mai ci hanno provato a lanciare segnali d’aiuto, senza che ci fosse qualcuno capace di coglierne il senso di profondo bisogno e di disperazione che c’era nelle loro parole.

C’è qualcosa che non va in tutto questo.

Queste donne hanno bisogno che i loro silenzi vengano ascolti, di essere guardate.

E mi chiedo – voglio affrontare un tema difficile, ma che mi sta a cuore – mi chiedo quale letargia della coscienza, quale strabismo dell’anima ci abbia preso, quando guardiamo i corpi delle ragazze in vendita lungo le strade e passiamo oltre, sigillando i destini di quelle vite dentro la frase, “tanto quello è il più antico mestiere del mondo”.

Certo, oggi, è difficile capire e far capire: c’è questo indistinto rumore di fondo in cui si cerca di mettere tutto sullo stesso piano, le ragazze che si vendono per fare carriera, uomini e donne che liberamente decidono di guadagnare col proprio corpo, anzi questi modelli sono quasi indicati come quelli vincenti, da imitare. Non è di questo che voglio parlare, questo fa parte della sfera della nostra etica, della nostra morale. Quello di cui voglio parlare è che, nella nostra più totale indifferenza, anzi, con la nostra complicità, ogni permettiamo che per le strade delle nostre città, nell’appartamento vicino al nostro permettiamo che si perfezioni il reato di tratta, sequestro di persona, sfruttamento della prostituzione. Che donne che vivono nelle parti più povere del mondo vengono prese, spesso rapite, spesso quando sono ancora bambine, perchè i clienti, i nostri mariti, compagni, figli, fratelli, fidanzati, la possano avere la loro veloce, trasgressiva soddisfazione sessuale.

I tribunali italiani, per la prima volta, credo, nella storia d’Italia emettono condanne, in nome del popolo italiano per reati come tratta di esseri umani, sequestro di persona ai fini di sfruttamento, che svelano, se ancora ce ne fosse bisogno, che il mestiere più antico del mondo è, in realtà, la più antica violenza dell’uomo sulla donna. Non è questo il lavoro che la nostra Costituzione pone come fondamento della nostra società. Il più antico mestiere del mondo della donna è un altro,  è l’ostetrica.

Della condizione femminile in Italia se n’è occupato anche l’Onu.

Il 25 giugno 2012 vengono presentato  all’Onu di Ginevra i dati sugli omicidi e sulla violenza sulle donne in Italia. Per quel che riguarda gli omicidi si tratta del primo Rapporto tematico sul femminicidio ed è il frutto del lavoro realizzato per dieci giorni in Italia da Rashida Manjoo, inviata dell’Onu.

(informazioni tratte dal sito www.pangeaonlus.org e altri articoli sulla presentazione del rapporto)

Il suo discorso non fa sconti sulla situazione nel nostro Paese. ‘Il femmicidio è l’estrema conseguenza delle forme di violenza esistenti contro le donne. Queste morti non sono isolati incidenti che arrivano in maniera inaspettata e immediata, ma sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine ad una serie di violenze continuative nel tempo.” Violenza, insomma, come forma di comportamento abituale e quella in casa è la forma più ampia che affligge le donne nel Paese e riflette un crescente numero di vittime di femmicidio da parte di partner, mariti, ex fidanzati. Avverte Manjoo: “Purtroppo, la maggioranza delle manifestazioni di violenza non sono denunciate perché vivono in una contesto culturale maschilista dove la violenza in casa non è sempre percepita come un crimine; dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza; e persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono appropriate e di protezione”. Il suo rapporto infatti sottolinea ‘la responsabilità dello Stato nella risposta data al contrasto della violenza’ e, ‘analizza l’impunità e l’aspetto della violenza istituzionale in merito agli omicidi di donne (femmicidio) causati da azioni o omissioni dello Stato’.

Conclude l’inviata dell’Onu: “Femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita. In Italia, sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza, questi risultati non hanno però portato ad una diminuzione di femicidi o sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine.”

La cosa interessante è che l’Onu indica anche quali strade sarebbe necessario percorrere per fare concretamente qualcosa:

l’Onu plaude alla legge antistalking, ai passi avanti fatti con la quote rosa nei consigli di amministrazione, la discussione sulle quote rose nell’ambito dei meccanismi elettorali

Ma ci sono anche delle indicazioni precise per quanto riguarda le buone prassi da mettere in atto:

Le richieste vanno in molte direzioni:

Riguardano interventi culturali che cambino l’immagine della donna nei mezzi di comunicazione, raccolte di dati e informazioni che riguardino la differenza di genere per poter avere un quadro completo non solo dei tipi e della quantità di violenza, ma anche delle disparità nei vari ambiti sociali, lavorativi, dell’istruzione, dei percorsi di accesso al lavoro. Inoltre indica una serie di modifiche legislative da attuare in materia di divorzio, affidamento dei figli, immigrazione per tutelare quelle donne che sono ancora più vulnerabili in quanto vittime di più forme di violenza.

E poi, l’importanza di potersi difendere adeguatamente, in tribunale, con buoni avvocati, quindi la necessità del patrocinio legale per chi non può permettersi di pagare la sua difesa.

E, naturalmente, l’efficacia dei centri antiviolenza, il sostegno finanziario, la preparazione degli operatori che seguono le donne vittime di violenza.

Purtroppo mancano troppi anelli a questa catena.

Per questo è necessario costruire, in ogni comunità, una filiera rosa, una filiera virtuosa che metta insieme tutti, istituzioni, forze dell’ordine, scuole, parrocchie, associazioni, perché una donna che chiede aiuto trovi protezione: si può partire dal codice rosa al Pronto soccorso, uno spazio riservato alle donne che arrivano al pronto soccorso, con personale formato che sia in grado di capire cosa c’è veramente dietro la richiesta d’aiuto di una donna. E poi forze dell’ordine in grado di accogliere le denunce, formazione di personale per i centri antiviolenza, rialfabetizzazione dei ragazzi e delle ragazze nelle scuole con progetti che li mettano di fronte alle questione di genere.

Queste cose non sono così’’ lontane dalla portata delle iniziative che si possono mettere in campo anche a livello locale, attraverso una collaborazione fra istituzioni, forze dell’ordine, sistema sanitario associazioni e vanno a costuire solo la base, una piccola barriera contro la violenza, in questo paese dove, comunque, sono le vittime a dover scappare a dover stravolgere la propria vita mentre i carnefici troppo spesso sono liberi.

Voglio però  voglio chiudere con una nota positiva: le donne sono forti, hanno mille risorse, ci sono donne che rinascono dopo aver subito violenze di cui è difficile sopportare anche solo il racconto. Perchè, man mano, acquistano la consapevolezza del loro valore.

C’è un vero greco per indicare il “vedere” che a me piace molto. Il vero è “zeaomai” vuol dire “guardare” ma nell’accezione di “guardare con stupore”. Ha la stessa radice della parola greca “teatro”, il luogo che si guarda con stupore e della parole “divinità”.  Io credo che la cosa più ci condiziona e ci impedisce di affermare le nostre potenzialità sia la paura di essere felici. Felici di vivere con pienezza la vita, ad esempio. Siamo forse educate ad avere paura della felicità. Invece dobbiamo imparare e a guardare con stupore alle nostre capacità e a tutto quello che, ogni giorno, siamo in grado di fare,  a non avere paura di essere visionarie e inventarci un modo di diverso di convivere in questo mondo con l’altro sesso e, soprattutto, a non temere i nostri sogni spericolati.Dobbiamo essere consapevoli che ciascuno di noi ha diritto a essere felice e a deragliare dai binari della propria vita, ad andare fuori strada per trovarne un’altra, di strada, in cui inventarsi un proprio, personale percorso di ricerca di felicità.